sabato 3 aprile 2010

tagliaVerba

“Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo”

Attribuita solitamente a Voltaire, sembra in realtà che la frase sia stata formulata per la prima volta dalla inglese Evelyn Beatrice Hall, famosa proprio per una biografia sul filosofo francese ("Gli amici di Voltaire") scritta sotto lo pseudonimo di S.G. Tallentyre . L’espressione,conosciuta anche nella variante "non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo", venne intesa dalla scrittrice come una formulazione esaustiva del pensiero di Voltaire e viene comunemente utilizzata come una delle espressioni più efficaci del concetto di tolleranza.

Cosa dire a riguardo?Senza dubbio la frase è realmente un magnifico esempio di cosa deve essere la tolleranza della diversità, onesta nella sua formulazione perché manifesta da parte di chi la formula l’esistenza di punti di vista convinti(disapprovo ciò che dici) e ,allo stesso tempo,la comprensione profonda dell’importanza del diritto di libertà di parola(lo difenderò fino alla morte). Oggi infatti più che per lasciare gli altri liberi di esprimersi tendiamo a tollerare per un concordismo che teme prese di posizioni decise che potrebbero portare a scontri,in altri termini, dì quello che vuoi perché se obietto qualcosa potresti arrabbiarti e darmi problemi. E’ importante invece avere la consapevolezza che quello che l’altro dice potrebbe turbarci profondamente perché se ciò accadrà sarà perché urterà delle nostre convinzioni profonde le quali devono necessariamente essere in qualche modo ancorate ad una certa percezione del concetto di verità o almeno di plausibilità che oggi è invece piuttosto passato di moda.

L’altro potrebbe realmente avere torto,ma questo lo scoprirò, e lo farà anche lui solo se sarà libero di esprimersi. A questo deve perciò essere unito un impegno concreto per la difesa della libertà di parola, difesa fino alla morte, in quanto senza di essa non esiste confronto e senza confronto c’è una ricerca parziale e limitata, causa di enormi errori commessi nella storia dell’umanità e conseguenza estremamente dannosa per la sua esistenza. Quale frase migliore di questa per inaugurare l'apertura di qualsiasi forum di discussione?

religione 1


Nell’opera Umano troppo umano, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche scrive una tagliente sentenza a riguardo del cristianesimo (una tra le tante): «Quando la domenica mattina sentiamo rimbombare le vecchie campane ci chiediamo: “Ma è mai possibile!Suonano per un ebreo crocifisso duemila anni fa, che diceva di essere figlio di Dio!”»
Se il filosofo tornasse oggi e leggesse i nostri giornali probabilmente pronuncerebbe nuovamente questa sentenza,riferendola stavolta non più alle “vecchie campane” bensì alla nuova polemica suscitata in seguito alla disposizione della Corte Europea che prevede di togliere dalle scuole nientemeno che il simbolo di quell'ebreo crocifisso. 
Anche noi ci chiediamo: è mai possibile? E’ mai possibile che, tra i tanti problemi di cui l’Europa dovrebbe (e deve) occuparsi si pensi proprio a condannare quella prassi secolare della sua società, quella di affiggere il simbolo del cristianesimo, la croce? Ed è mai possibile che ci si accanisca così tanto sulla questione? Viviamo in stati laici, dunque dovremmo essere d’accordo con la sentenza della Corte. Perchè allora tanta opposizione che è arrivata, in alcuni casi, a promettere quasi fino alla morte la difesa del crocifisso? Per zelo religioso in puro stile ebraico oppure per semplice shock culturale? Per analizzare il problema dobbiamo dare due spiegazioni: che cosa rappresenta in sè il crocifisso e che cosa rappresenta agli occhi delle persone, sia di quelle che lo vogliono lasciare appeso, sia di quelle che lo vogliono appeso solo altrove. Ciò che rappresenta in sé è facilmente intuibile: è la rappresentazione del cuore del cristianesimo e cioè il sacrificio del dio che, per amore, nasce nel mondo come Gesù, Yeoshua di Nazaret e viene crocifisso a causa della malvagità umana, invitando tutti a prenderlo da esempio, a fare del sacrificio di sé finalizzato al bene altrui una radicale scelta esistenziale. Se è scelta implica un soggetto che prenda posizione, cosa che è in antitesi con il concetto di tradizione culturale che invece viene assimilata involontariamente. Dobbiamo allora capire come viene visto questo simbolo agli occhi di chi lo espone; occorre però fare prima una precisazione e cioè che, essendo stato il cristianesimo religione di stato per secoli, ha sempre affisso il simbolo della sua fede in tutti i luoghi della vita pubblica; questa è diventata un’abitudine che si è profondamente incarnata nella tradizione del popolo europeo. La differenza tra chi lo affiggeva perché profondamente convinto del messaggio che portava e chi lo affiggeva per convenzione, usanza o magari per scongiuro o ancor di più per sfruttarne il risvolto politico non era individuabile perché non era possibile professarsi pubblicamente non cristiani, figuriamoci rifiutare l’affissione del crocifisso nei luoghi pubblici. Oggi invece questo è possibile ed è anche possibile, per chi non abbraccia la prospettiva cristiana,vederlo come un semplice residuo di un’epoca passata. 
C’è allora chi lo vede come espressione della sua scelta esistenziale, chi come una normale tradizione del suo popolo, chi ancora come un simbolo dal quale non si sente rappresentato. La risposta allora non dovrebbe essere quella di togliere il crocifisso perché sentito come fastidioso o per risentimento personale (cosa che probabilmente ha influito sulla sentenza della Corte) né opporvisi perché si ha paura della scomparsa del cristianesimo dalla terra europea. Il problema infatti è che, se si espone un simbolo di fede, quindi di adesione esistenziale, in un luogo pubblico, significa che questo gesto è espressione della volontà delle persone che frequentano quel luogo; nel momento in cui, come nel nostro caso, ciò non corrisponde alla realtà perché la scelta esistenziale delle persone nei luoghi in questione non è la stessa, affiggere il crocifisso resta un gesto svuotato del suo scopo e cioè rappresentare una fede condivisa da tutti i membri che frequentano quelle mura. Ecco allora che rimane una semplice abitudine, consuetudine, tradizione. 
Chi crede nel crocifisso sa che questo deve essere affisso in primo luogo nell'intimo della propria persona; di conseguenza non sarà per lui un problema se, andando a scuola, non dovesse vederlo affisso nella parete frontale. E se addirittura dovesse essere l’unico a credere in quel simbolo, troverebbe estremamente coerente con l’ambiente la sua assenza. Allora si sforzerebbe di portarlo, non più nei muri ma, attraverso il suo esempio, nelle storie degli altri e non più in forma di legno ma in forma di vita.

porcellana


Allontana il tuo pensiero da questa via di ricerca e non ti spinga su di essa l'abitudine di lasciarti guidare da un occhio che non vede, da un orecchio che rimbomba e dalla parola: giudica invece con ragione. (Parmenide)

Il documentario sopra titola "il Corpo delle donne", realizzato da Lorella Zanardo la quale prova, mi sembra con successo, a metter da parte l'occhio che non vede cercando di recuperare il volto considerato troppo rugoso per la porcellana televisiva.

Era questo l'intento del femminismo de "Una donna ha bisogno di un uomo come un pesce di una bicicletta"?


Sono queste donne, figlie e mamme , comparse mute o donne-piededitavolo, il frutto e il simbolo dell'emancipazione femminile?
Questo topos televisivo della donna è frutto di sfiducia nella reale possibilità che possa esistere parità de facto tra uomo e donna o è l'ennesima prevalicazione di una visione machista della donna all'interno del panorama televisivo?

Se la sfiducia è l'ingrediente che non ha fatto fermentare un'immediata e intensa ribellione a questa direzione, difficile risulta trovare motivazioni ragionevoli che giustifichino la visione del corpo-oggetto al di fuori di una visione rivisitata e resa "socialmente accettabile" del maschilismo di terza categoria.

A tal proposito Gad Lerner scrive nel suo blog riguardo A.Ricci:
"vedo in lui -che adora pensarsi nichilista e sovversivo- il Dante Alighieri del berlusconismo; cioè il vate che ha tradotto nella lingua volgare della televisione commerciale una mentalità degradante e misogena, da vitelloni e da frequentatori di casino, senza un passo avanti rispetto all’italietta puttaniera e clericale degli anni Cinquanta."

Ben vestito e con la falsa democrazia del telecomando questo libertinaggio sul corpo delle donne (c'è chi lo definisce "fascismo estetico" ma accostamenti cosi arditi li salto a piè pari) come era facile aspettarsi si è fatto strada fra gli uomini ma fuori da ogni aspettativa (o buon senso) ha preso possesso anche delle donne.

Sotto questa luce,o in questo buio, non è più la possibilità di poter lavorare e realizzarsi professionalmente pur avendo una famiglia  la conquista del nostro tempo (alludendo con "professionalmente" a capacità coltivate che trascendono la semplice esposizione di decoltè) ma la possibilità "di andare a letto con tanti uomini  e non venire considerate cattive ragazze".

La ricerca della parità si è trasformata in una disdicevole ricerca acritica di uguaglianza. Le opportunità nell'essere libere di fare e libere da pregiudizi si è trasformata in una continua ricerca di appagamento unidirezionale dal sexy per il sexy nel sexy (naturalmente per gusto e desiderio squisitamente maschile).

Le mie fiducie si ripongono nell'indisponibile femminilità donna che continuerà a esistere e prender piede a sfavore di una femminilità uomo unicamente dipinta con colori nudi che tanto hanno di volgare e veramente poco di sensuale.

Gabriele Pergola



pirateria


A quando il partito dei furti con destrezza o l'associazione degli amici dello sballo legalizzato? - si chiede Tullio Camiglieri, Coordinatore del Centro Studi per la difesa dei diritti degli autori e della libertà di informazione, riferendosi alla "Festa dei Pirati" (informatici), svoltasi sabato scorso al cinema Capranica di Roma.

La stessa manifestazione che conta tra i suoi partecipanti "d'eccellenza" Antonio di Pietro: l'inflessibile promotore del rispetto della legalità in Italia è intervenuto al raduno dei sostenitori del libero scambio di materiali multimediali in rete, scambio che spesso avviene in barba alle attuali leggi del copyright ed è quindi perseguibile legalmente.
Come si spiega questa contraddizione apparente? Quali fattori culturali gli permettono di partecipare ad una manifestazione a favore del P2P senza dover dismettere l'abito di fautore della legalità?

°Il primo punto da mettere in evidenza è che da parte della maggioranza dei consumatori il download per uso privato di materiale coperto da copyright non viene percepito come illegale. A ragione o a torto, potremmo chiederci? In realtà la risposta non è così semplice. Da un lato è certo che nessuno di noi, neppure il più accanito fruitore di film, musica o giochi scaricati illegalmente, pensa seriamente che sia giusto non retribuire artisti, intellettuali e programmatori per il loro lavoro. E' evidente che la fatica ed il tempo impiegati nel produrre dei beni culturali (senza contare l'inventiva necessaria), meritino un giusto compenso e che la proprietà intellettuale delle opere sia e rimanga un diritto fondamentale che deve venir riconosciuto. Eppure la facilità di accesso a contenuti tutelati dal copyright e l'impersonalità della procedura di scaricamento contribuiscono alla sensazione di non star compiendo nulla di illegale. Non abbiamo dinanzi a noi la persona alla quale arrechiamo un danno, a differenza di quanto accade con gli altri tipi di "furti", e questo è un fattore della pirateria difficilmente eliminabile. D'altro canto, definire lo scaricamento illegale un "furto" sembra decisamente inappropriato anche a chi scrive. E ciò non soltanto per i fattori di carattere "emotivo" di cui si è parlato sopra, ma anche per ragioni molto più condivisibili e razionali.

°Il problema principale è che l'attuale prezzo della maggior parte dei prodotti multimediale è insostenibile rispetto alla quantità a cui al giorno d'oggi ha bisogno di accedere un uomo di media cultura. Per fare un esempio, un cittadino comune che volesse tenersi mediamente informato sulle novità che il mondo della cultura gli offre al giorno d'oggi seguirà circa 4 serie tv all'anno (il costo medio del DVD con una stagione di un serial televisivo si aggira intorno ai 50 euro). Ogni mese acquisterà come minimo un CD musicale, dal costo medio di 20 euro; leggerà almeno tre libri (molti di più se consideriamo anche quelli che sono materia di studio) il cui costo medio è 20-30 euro l'uno, andrà al cinema più o meno quattro volte (sei-sette euro a spettacolo); inoltre, qualora volesse accedere a buona parte dei contenuti disponibili nelle reti televisive, dovrà sborsare all'incirca 40 euro per la pay tv.

°Soprattutto, tutti ormai sanno che buona parte del ricavato non andrà direttamente all'artista: la mediazione delle grandi case produttrici, che come è certo tendono a gonfiare i prezzi fino a livelli ritenuti inaccettabili dai consumatori, viene ormai vista come ingiustificata, illegittima o predatoria. Se certamente le grosse multinazionali della cultura tendono ad agevolare in un primo momento lo sbocco degli artisti emergenti, è altrettanto vero che in un secondo momento esse spesso divengono, per ammissione degli stessi artisti, una forte limitazione alla loro libertà creativa e alla stessa proprietà intellettuale delle loro opere. Se dunque scaricando illegalmente si fa un danno a qualcuno, la sensazione è che questo danno lo ricevano molto più le grosse major speculatrici che gli artisti stessi. Sono soprattutto loro che, nella nuova era di liberto accesso ai beni multimediali, potrebbero rischiare il tracollo. Ma sarebbe davvero un danno per l'industria della cultura? Ciò non potrebbe invece favorire la nascita di nuovi sistemi di interazione diretta tra intellettuali e consumatori, sistemi che usufruendo della stessa rete potrebbero non avere più alcun bisogno di supporti materiali (pensiamo ai CD, ai DVD o alla carta) e di alcuna intermediazione da parte di terzi, portando ad una minimizzazione dei prezzi ottimale tanto per il consumatore che per il produttore del bene o del servizio?

°Infine, sembra che sia difficilmente giustificabile da un punto di vista etico o razionale la necessità di mantenere il copyright anche su opere che hanno fatto il loro tempo o il cui ideatore non è più in vita. Oltre che il sistema di interazione tra produttore e consumatore è lo stesso sistema del copyright che necessità di essere reso più "leggero" e al passo con i tempi attuali. Non ha senso dover continuare a pagare per vedere un classico del cinema degli anni cinquanta o per ascoltare una canzone di Elvis Presley.

Per tutte queste ragioni riteniamo che la pirateria non sia soltanto sinonimo di barbarie, immoralità e opportunismo. E' soprattutto il frutto di un sistema vecchio e obsoleto che tarda ad adeguarsi alle necessità del pubblico per non correre il rischio di perdere certi privilegi economici di casta. Cosa che troviamo, francamente, indifendibile.

prova 1

e vedi che ti mangi